Sono le 7 del mattino e il Shiv Ganga Express, il treno notturno che in 12 ore collega Delhi a Varanasi, entra puntuale nella stazione di destinazione. Nonostante il comfort della prima classe, sono ancora intorpidito e assonnato: viaggiando su un treno indiano si incontra un’umanità che si rivela in tutte le sfumature comprese fra opulenza e indigenza, in un susseguirsi di immagini che si sovrappongono e si scompongono. A Varanasi il caldo è opprimente. Mi faccio largo tra la folla e riesco a raggiungere una vecchia Ambassador. Il tassista, con il classico dondolio del capo, mi sorride e parte in direzione della città. È un ragazzo giovane dagli occhi vivaci; mi dice che la sua attività, come la vecchia auto, si tramanda di padre in figlio e, mentre mi parla dell’origine della città e del culto per il dio Shiva, io sono ipnotizzato dalla statuetta del dio in questione che riposa sul cruscotto. La leggenda narra che Shiva mozzò una delle cinque teste di Brahma, reo di essersi unito incestuosamente e di aver sposato la figlia Sarasvati, e poi andò a purificarsi del sangue versato nelle acque del Gange: in quel punto sorse Varanasi.
Kashi, Benares, Varanasi, così è stata rinominata nel corso della sua storia millenaria. Nonostante abbia le peculiarità delle città indiane, cresciute a dismisura fra tradizione e innovazione, con i piedi nel passato ma lo sguardo al futuro, a Varanasi si ha la netta percezione di entrare in un microcosmo unico, dove i contrasti tipici dell’India sono azzerati. Ricchezza e povertà si toccano, leggenda e spiritualità si mescolano nel mistero della fede. Questa è la città dove scorre il Ganga Mata (Madre Ganga), il luogo sacro degli induisti.
Quale itinerario seguire? Quali luoghi visitare? Sono queste le domande che mi pongo mentre mi trovo in difficoltà davanti a una realtà che non pensavo di incontrare e che confonde la mia mente. Noi occidentali siamo terribilmente certi dei nostri registri culturali, siamo sempre pronti a giudicare. Ma qui a Varanasi sfido chiunque a non restare spiazzato, a non capire che ci si trova davanti a una realtà nuova, in una dimensione che non riusciremo a cogliere fino in fondo. Quindi il modo migliore per visitare Varanasi è quello di camminarle accanto, senza presunzione e senza paura di incontrare una realtà diversa, e di osservarla senza giudizio. Ciascuno con la propria sensibilità potrà avvicinarsi al mistero del sacro e della fede, della vita e della morte, che si fondono e si rinnovano continuamente.
A Varanasi nulla è nascosto, al contrario tutto è visibile e non ci sono filtri. Muoversi nella città vecchia è un’esperienza unica ed emotivamente faticosa. Che ci si sposti a piedi o a bordo di un risciò, si affronta un dedalo intricato di stradine che inevitabilmente portano ai ghat, le scalinate che conducono al Gange. La città si sviluppa solo su una riva del fiume, mentre l’altra è deserta ed è considerata impura dalla religione induista. Ci si muove fra gli odori intensi, i colori accesi e il rumore variegato che tutti immaginano pensando all’India, ma è la folla a colpirti: persone di ogni condizione sociale, provenienti da tutta l’India, che hanno percorso migliaia di chilometri, spesso camminando per settimane o mesi; con i loro pochi averi si dirigono verso i ghat per bagnarsi e purificarsi nelle acque divine del Gange. Viandanti, mendicanti, malati, guru, asceti, sadhu si mescolano con la vita quotidiana dei commercianti davanti ai loro negozi, degli artigiani davanti alle loro botteghe, dei carretti trascinati a fatica nelle strette viuzze, alle vacche pigre e indolenti sdraiate in mezzo alla strada, alle donne con le pentole sulla testa, avvolte negli abiti tradizionali dai colori sgargianti.
Scendere i gradoni e arrivare sulla riva del Gange mi fa provare una sensazione di liberazione, ma lascio una città per trovarne un’altra: i palazzi che i maharaja e i ricchi hanno costruito per venire a morire nella Città Santa stridono con la sofferenza e la miseria che vedo intorno a me; un’immensa corte dei miracoli si estende sul vasto piazzale, raccolta per una preghiera e un bagno nel fiume sacro; venditori di ciotole per le abluzioni, di rosari, di corone di fiori, barcaioli, venditori di legna per le pire. In lontananza brillano i fuochi dei roghi delle cremazioni, intorno i familiari dei defunti. La cremazione è l’epilogo della vita degli indù e del pensiero religioso induista, necessaria per liberare l’anima dal corpo.
Scendo verso il fiume e a gesti riesco a farmi capire da un barcaiolo. Salgo sulla sua barca e, mentre mi allontano dalla riva, tutto diventa più soffuso, quasi sfocato. Sull’acqua galleggiano fiori e lampade votive, e l’atmosfera diventa irreale. In tutto questo vortice di emozioni c’è un’armonia inspiegabile. Mi tornano in mente le parole di Pier Paolo Pasolini dal suo libro L’odore dell’India: «Mai, in nessun posto, in nessun’ora, in nessun atto, di tutto il nostro soggiorno indiano, abbiamo provato un così profondo senso di comunione, di tranquillità e, quasi, di gioia».