Robert Peroni è nato in Alto Adige ma da quarant’anni vive a Tasiilaq, nella Groenlandia orientale. Arrivato là per attraversare la calotta polare da est a ovest insieme a due compagni di avventura, ha scoperto un mondo che ha sentito essere casa e così ha deciso di fermarcisi a vivere. La sua casa oggi è The Red House, una struttura che ospita viaggiatori provenienti soprattutto dalla Germania e dall’Italia e offre lavoro agli abitanti del posto, che altrimenti faticano a trovarne. Le attività lavorative a Tasiilaq sono poche ma, soprattutto, se serve un titolo di studio, i ragazzi per ottenerlo devono lasciare la famiglia e trasferirsi in Danimarca o nella Groenlandia occidentale, che è già un altro mondo dato che la lingua delle due coste groenlandesi è diversa.
Photo by Laura Antoniolli
La “Casa Rossa” si chiama così per via del suo colore: è una delle casette rosse in legno del villaggio di 2000 persone che è la capitale simbolica della Groenlandia orientale, ma l’unica con il suo nome appeso sulla facciata, Utiili aapalartoq. La leggenda vuole che in origine fosse la casa di Robert, progressivamente ampliata e attrezzata per ospitare un turismo crescente. Si parla di leggende perché i dettagli delle storie tendono a cambiare sensibilmente nella Groenlandia orientale, quindi è sempre bene non prendere nulla alla lettera. Nell’inverno del 2018, l’ultima volta che ci sono stata, la Casa Rossa poteva ospitare fino a una settantina di persone, con soluzioni comprese tra camera con bagno privato in pensione completa e noleggio di una “piazzola” del campeggio vista fiordo (ovviamente possibile solo d’estate).
Photo by Filip Gielda on Unsplash
In un villaggio che per sei mesi all’anno riceve provviste solo via aerea a causa del fiordo ghiacciato che impedisce l’accesso delle navi, l’isolamento sembrerebbe un fatto normale. In fondo la vita si concentra nel villaggio, con poche persone che si spostano in quelli vicini solo via nave e via elicottero o, d’inverno, con motoslitte o slitte trainate dai cani. E invece, da marzo 2020, quando la Danimarca ha interrotto i collegamenti con la Groenlandia orientale per impedire l’arrivo del coronavirus in una cittadina priva dei servizi sanitari adeguati a gestirne gli effetti, l’isolamento ha assunto un volto nuovo anche qui.
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Robert è rimasto in silenzio, a consumare le provviste ordinate per gli ospiti della Casa Rossa in vista della stagione estiva cancellata, senza curarsi troppo della loro data di scadenza. Lo stesso silenzio riservato del popolo inuit che mi aveva tanto affascinata: «Siamo nomadi, ci adattiamo a tutto» è la risposta di Robert alle preoccupazioni espresse via mail dall’Italia. Ma il team che lavora con Robert, i viaggiatori che hanno sperimentato l’ospitalità della Casa Rossa e quelli che da tempo aspettavano l’occasione di volare sino a Tasiilaq hanno iniziato a unire le forze in una raccolta fondi che consentisse la sopravvivenza di questa struttura turistica che è prima di tutto simbolo di incontro e di aiuto tra mondi e culture.
Photo by Laura Antoniolli
La storia di Robert è arrivata nei telegiornali italiani con un anno di ritardo, dipinta più come la difficoltà di un italiano all’estero che come il dramma di un popolo, che in realtà è. Quello che conta però è il risultato, la raccolta fondi che cresce oltre gli obiettivi di chi l’ha avviata e che ha portato molti a pensare, nel mezzo delle difficoltà a casa propria, a quelle di un popolo lontano e di un uomo che prova a dare loro una voce e a difenderne la dignità. Un successo che nasconde molte speranze: di poter tornare a Tasiilaq, di poterci andare per la prima volta, che le cose di valore resistano alla pandemia e alle sue conseguenze, che il mondo torni a essere a portata di mano come ci eravamo abituati che fosse.