Visitare la propria città o mete nei dintorni, prendere la bicicletta e arrivare alla seconda spiaggia più lontana da casa, fare escursioni su monti e colline che si vedono dalla finestra della propria stanza, senza bisogno di chiudere il gas e chiedere al babbo di passare a innaffiare le piante o di lasciare il proprio gatto alle cure di un amico fidato. È così che immagino il turismo di prossimità: partire ma non troppo.
Eppure non è facile capire i confini di questo viaggiare. Alcuni dicono che il suo tratto distintivo è lo spostamento limitato, il percorrere la distanza che ti consente l’automobile. Penso alle vacanze al mare dell’infanzia e ai viaggi in auto di 12 ore per arrivare in Calabria da Bergamo, e mi convinco che il cuore della questione sta altrove. Altri dicono che la differenza la fanno la tipologia di alloggio e la durata del viaggio, quindi che il turismo di prossimità è breve e fa riferimento a piccole strutture ricettive, B&B e agriturismi. Ma mi viene in mente la famiglia che ha affittato per un mese intero un appartamento in montagna, che raggiunge con un trasferimento di un’ora da casa, e la questione mi sfugge di nuovo.
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C’è il rischio che il turismo di prossimità suoni come una rinuncia, un ripiego, in questa estate di regole incerte e di timori pandemici a cui ci si aggrappa anche per scaramanzia, per esorcizzare la paura di una seconda ondata. Il richiamo a un turismo anni ’50 piace forse ai nostalgici e agli amanti del vintage, che potrebbero sfoderare con entusiasmo vestiti a pois e cestini di paglia per il picnic, ma di certo non aiuta a cogliere l’opportunità e le potenzialità di questa modalità di viaggiare.
C’è il rischio di autolimitarsi, di pensare che alcune distanze chilometriche ci tengano più al sicuro di altre o che se non si esce dai confini italiani allora non è vero che si sta viaggiando. “Chi me lo fa fare di partire se non devo nemmeno dormire in un letto diverso dal mio per almeno una notte?”, sento qualcuno pensare.
Credo che l’essenza del turismo di prossimità stia tutta nello sguardo: la mattina apri la finestra di casa e ammetti di sapere ben poco di quel che ti circonda, che ne conosci molto bene la superficie, che sai da che parte svoltare per andare a fare la spesa e che puoi salutare ben dieci persone in una passeggiata di venti minuti, ma niente più. Qualunque siano la sua durata, la sua ampiezza e i suoi alloggi, il turismo di prossimità è quello che ti chiede di vedere tutto quello che non sai di quanto ti è più familiare.
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Se l’ultima volta che hai partecipato a una visita guidata nella tua regione eri in terza elementare e quando pensi a un viaggio consideri solo luoghi in cui si parla una lingua straniera, allora considerare di stare molto vicino a casa potrebbe essere più un’occasione che un ripiego. E credo che la considerazione valga anche per tutti quelli che, come me, non hanno una lista di almeno 10 motivi per cui qualcuno dovrebbe passare una settimana nel luogo in cui abitano: il turismo di prossimità aiuta a dare e restituire valore e, dopo mesi di paura e incertezza (che per molti non sono ancora passate), potrebbe essere una buona cura.