“Dove ho messo il trolley? Quante mutande servono per un viaggio di tre giorni? E il beauty? Ho messo tutto nel beauty?”. In qualche modo avevo viaggiato durante l’estate 2020, nessuna destinazione da sogno cancellata dalla lista dei desideri, ma qualche chilometro l’avevo macinato. L’ultimo spostamento era stato per un weekend di metà ottobre a Torino, poi il vuoto imposto dalle restrizioni per il Covid. Bastano otto mesi per dimenticare come si viaggia? Per scordarsi dove hai messo lo strumento chiave di ogni fuga, il trolley?
Rientrata da Torino, avevo avuto fiducia di poter viaggiare di nuovo. Mi ero iscritta a un corso in otto weekend, quindi mi aspettavo un altro fine settimana fuori casa a novembre, poi un terzo a dicembre e così via fino a maggio. Avevo lasciato il trolley nel ripiano più basso dell’armadio, gesto di sfida all’anno di restrizioni e di fiducia per i viaggi futuri: anziché infilarlo nella valigia più grossa e relegarlo nel ripiano più alto, scomodo e fuori dalla traiettoria del mio sguardo, avevo deciso di lasciarlo a portata di mano.
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Da novembre, invece, i mesi erano passati senza spostamenti di rilievo. Se in un primo momento avevo controllato la variazione delle restrizioni, alla fine avevo smesso di fare caso alle coloriture delle Regioni per quanto indicatrici della possibilità di sconfinamento. Solo un messaggio di “liberi tutti” sarebbe stato capace di risollevare il morale, di ridare fiducia. Al punto che avevo dimenticato il luogo di sosta temporanea del mio trolley, la piccola valigia amica di chiunque veda l’occasione per un viaggio tanto in una festività quanto in un corso di formazione a 200 km da casa.
Alla fine è stato il mese di maggio 2021 a segnare la svolta. Il giallo è stato finalmente sinonimo di sole e primavera, nessun lampeggiamento di preavviso per uno stop o un rosso desolante. A quel punto, però, mi sono scoperta fuori allenamento: un’ora per trovare il trolley in una casa di 80 mq con un solo vero armadio. Il valigione aperto in cerca della sua versione ridotta, chiuso con la stizza di chi non trova quel che era certo fosse lì. “E se fosse in cantina? O magari in garage…” mi sono chiesta immaginando il trolley come la rappresentazione del dio del Viaggio, e il suo esilio la punizione per l’indifferenza della divinità verso il destino dei viaggiatori.
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Poi il trolley è spuntato, non so come. Ho aperto la stessa anta per la quarta volta, con l’ostinazione dell’apprendista mago che ripete il medesimo gesto all’infinito con la pretesa che la magia avvenga, e lo sguardo è scappato in basso, tra le pieghe di vestiti e pantaloni. Ha trovato una forma non chiaramente identificabile ma un colore degno di nota: il rosso vinaccia del trolley ha riacceso i neuroni sopiti del viaggio, che mi hanno fatta piegare sulle ginocchia per vedere meglio, tastare un poco. Eccolo!
Ma non è comunque finita qui. Ho infilato e s-filato mezzo armadio nell’amico ritrovato, stavo per preparare una lista di cose da mettere nel beauty e una di intimo e vestiti declinati giorno per giorno. Avevo perso anche la flessibilità degli abbinamenti al volo per un viaggetto di tre giorni, come provassi a fare le divisioni a mente dopo qualche mese di calcolatrice. Per questo mi ha presa un po’ di timore per la partenza: “Dove ho salvato la prenotazione dell’albergo? Troverò qualcuno ad attendermi o solo un robot con lo spruzzino di igienizzante incorporato? Riuscirò a mangiare fuori o dovrò rifornirmi al supermercato?”. Poi, per fortuna, i neuroni del viaggio hanno ripreso a funzionare a dovere e i conti di mutande, calze e magliette si sono risolti.
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L’ultimo timore (“ma se poi in questi giorni mi viene la febbre?”) si è spento non appena ho sconfinato dalla Lombardia al Piemonte: perché il dolce viaggiare rende fluente il ritmo di vita del cuore, diceva (suppergiù) Battisti.