Personalmente trovo difficile stabilire quando un viaggio finisca: non sono convinta che varcare la soglia di casa equivalga a scrivere la parola fine, perché capita di ripercorrere i ricordi della propria grande o piccola avventura e, in qualche modo, ci si ritrova trasportati in quei momenti e in quei luoghi e il presente cambia, anche solo per un istante. Sembra ieri che ti chiedevo di partire con me in auto con destinazione Islanda e Isole Faroe e adesso, mentre nel salotto di casa ripercorro le tracce del mese di viaggio, in un istante è come se stessi girando la chiave per mettermi in moto.
Dal continente alle Isole Faroe
Probabilmente ti sfugge il motivo per il quale ho deciso di accollarmi la fatica di percorrere 1700 km in auto e quasi due giorni di navigazione per raggiungere le Isole Faroe quando sarebbero bastate 5 ore di volo (al netto dello scalo) e avrei anche potuto provare l’ebrezza di atterrare in un piccolo aeroporto racchiuso tra un lago e l’oceano. La risposta è semplice: volevo tornare per la terza volta in Islanda e volevo farlo con il maggior grado di solitudine possibile, quindi ho optato per una traversata in nave partendo dalla Danimarca e, visto che la tratta prevede di passare dall’arcipelago faroese, ho colto l’occasione per una sosta.
La scelta si è rivelata perfetta:
- dopo mesi di preparativi e la foga degli ultimi giorni prima della partenza, i chilometri in auto e il limbo della navigazione mi hanno consentito di realizzare che era tutto vero, ero in viaggio da sola, armi e bagagli nel Dusterino, bianco come la neve che mi aveva affascinata nel primo viaggio invernale in Islanda;
- le tre isole maggiori delle 18 che compongono l’arcipelago delle Faroe sono state il campo di prova perfetto per calibrare la mia curiosità di vedere quanto lontana sarei riuscita ad andare senza aver studiato prima un itinerario e facendo affidamento solo su una cartina e la scia di profumo dell’ignoto;
- in tre giorni ho percorso tutte le strade di Streymoy, Eysturoy e Vágar e fatto tesoro degli elementi chiave della guida faroese (utilissimi comunque anche per l’Islanda), riassumibili nel concetto “ i limiti di velocità non sono limiti, ma indicazioni di quello che ti aspetta lungo la strada”, come vento a raffiche, curve su versanti a precipizio o strade a doppio senso che hanno la larghezza di un’unica carreggiata.
Mentre mi reimbarcavo nel porto della capitale Tórshavn con direzione Islanda, mi sono ripromessa di tornare in questo piccolo strano mondo che cambia forma ogni volta che cambia il tempo– cioè quasi ogni minuto- e nasconde piccoli villaggi apparentemente disabitati lungo le baie ove terminano le strade. Consiglierei questa manciata di isole anche a chi avesse problemi di sonno perché, viste le incalcolabili scorte di pecore, avrebbe buone probabilità di addormentarsi contandole.
21 giorni d’Islanda
Lo sbarco dell’11 Agosto a Seyðisfjörður, sulla costa orientale dell’isola, ha avuto il sapore della salvezza: quasi 24 ore di mare con onde di 6 metri ti insegnano che il verde non è solo il colore della speranza o dell’invidia. Ma l’idea che certe esperienze siano solo il rischio del mestiere del viaggiatore fa sì che tu non metta in discussione la scelta del mezzo di trasporto.
Dopo la prima mezza giornata dedicata all’acclimatamento, in modo che passasse la sensazione di dondolio della nave e recuperassi qualche scorta di cibo, sono partita verso Nord- nonostante il cielo coperto, la pioggerella fine e le nuvole basse- pronta ad iniziare il periplo dell’isola in senso antiorario rispettando un’unica regola: seguire il più possibile l’andamento della costa.
Ricostruire tutte le tappe dei 21 giorni temo sarebbe tedioso e di scarsa utilità, soprattutto considerato che la mia filosofia è che non conta dove vai, ma che tu decida di partire, tanto è molto probabile che il luogo che non riuscirai più a dimenticare non sarà quello di cui tutti parlano. Quindi delle tre settimane islandesi ti racconto le mie impressioni e i miei ricordi con la speranza ti siano d’aiuto a capire se questa terra fa per te o se, invece, è il caso che punti verso i Caraibi.
- La costa settentrionale ha un non so che di surreale con i lunghi tratti di strada deserta, paesaggi che cambiano passando da un fiordo al successivo e l’oceano che s’increspa all’orizzonte. Ti aspetti che compaiano navi vichinghe di ritorno dai confini del mondo e, mentre ti chiedi come sia vivere qui d’inverno, un brivido ti scorre lungo la schiena, ma non tanto per paura di soffrire il freddo. Trovi spaventapasseri agghindati come fossero maschere di Halloween, un’avifauna che non ha ancora capito che un’automobile di passaggio significa pericolo, il Museo dell’esplorazione e la pista che ti porta sulla sponda destra di Dettifoss perché ti sia chiaro che tu sei pochissima cosa rispetto a un mare d’acqua in caduta libera. Akureyri, la “capitale del Nord”, sembra un po’ una stranezza rispetto a quanto la circonda, quasi un monito di quanto siamo soliti chiamare civiltà, nel bene e nel male;
- mi concedo una trasgressione alla regola “seguire il più possibile l’andamento della costa” per andare a vedere il paesaggio di Krafla vicino al lago Mývatn. Qui il vento non perdona, forse offeso per il fatto che puoi dimenticarlo preso come sei da una tavolozza di colori che ha dell’incredibile, nuvole di vapore che salgono dalla terra, odore di uova marce, un cielo biblico, campi di lava e…fiori!
- i Fiordi Occidentali sono il rifugio migliore dalla presenza turistica, ma credo solo per questioni di distanze da percorrere, perché non è il fascino che manca a questi luoghi. Se è innegabile che abbiano un tratto distintivo che differenziandoli dal resto dell’isola li rende al contempo un’entità omogenea, non è comunque possibile incontrare la signora Noia sul proprio cammino, nemmeno percorrendoli uno di seguito all’altro e fermandosi in ciascuna delle minuscole località che li punteggiano. Ricordo stupore, cascate, foche, volpi artiche, bagni in piscine fronte oceano, un branco di globicefali, una mostra fotografica allestita in una fabbrica di aringhe dismessa, spiagge dorate che neanche ai Caraibi, una costa che si lancia verso il cielo punteggiata di fiori (ma abbandonata dalle pulcinelle di mare già in migrazione) e un cielo notturno screziato di aurora boreale. Io qui ci pianterei anche qualcosa più di una tenda;
- il resto della costa occidentale, dopo la grandiosità dei Fiordi, sembra poca cosa, ma forse è anche la mia sensazione che il viaggio stia volgendo al termine (visto che mi avvicino sempre più alla costa meridionale che è sinonimo di “rientro”) ad attenuare l’entusiasmo mentre attraverso la penisola di Snæfellsnes e a riempirmi di nostalgia mentre passo Borgarnes, poi Akranes e, infine, faccio tappa nell’affollatissima Reykjavik. Anche il meteo sembra adeguarsi al mio umore lasciando che il cielo si tinga di grigio dopo innumerevoli giornate di splendido sole;
- la costa meridionale mantiene per me la connotazione dell’inverno, non tanto grazie alle lingue del ghiacciaio Vatnajökull, quanto perché le sensazioni del viaggio del Febbraio 2015 restano imbattute. Miscelate pochi turisti, ghiaccio, vento, i riflessi del sole sugli iceberg di Jökulsárlón, spiagge nere, cascate e bianco quanto basta e per me ottenete un elisir di lunga vita. Unica vera sorpresa sono state le isole Westman. In pratica tutto si “riduce” a una traversata di mezz’ora in traghetto per visitare la sola Heimaey, ma io proverei il brivido di dormire per una notte su un fazzoletto di terra di meno di 14 km2 che è praticamente adagiato su un sistema vulcanico in mezzo all’oceano settentrionale;
- la costa orientale, invece, è stata una sorta di mistero, qualcosa che non riesco a spiegare, forse perché spaccata in due all’altezza di Seyðisfjörður, con la parte più settentrionale vissuta nell’eccitazione confusa dell’inizio dell’avventura e quella meridionale in un sole malinconico per la fine di Agosto e quella del viaggio. So solo che Reyðarfjörður e Neskaupstadur mi hanno aiutata a fare pace con la partenza imminente e, riportando in superficie lo stupore provato percorrendo i Fiordi Occidentali, mi hanno fatto capire che sarò sempre grata all’Islanda per tutto quello che mi ha fatto scoprire.
Ritorno non significa fine
Il tragitto tra Bergamo, punto di partenza e di arrivo, e la Danimarca, punto di sbarco e di approdo, resta sbiadito rispetto ai giorni passati nelle peregrinazioni isolane. Se all’andata mi è servito per entrare nello spirito del viaggio, al ritorno è servito soprattutto per rientrare nella civiltà dopo 30 giorni e più di solitudine. In un certo senso è come se avessi attraversato una terra di nessuno e Danimarca, Germania, Lichtenstein e Svizzera siano rimaste delle lacune da riempire.
Magari con uno dei prossimi viaggi.
Io sarei già pronta a ripartire, e tu?