Un uomo che a Berlino è stato più volte ha detto convinto che Berlino è una città difficile da capire. Ha fatto il suo proclama giusto poche ore dopo il mio atterraggio al Berlin Schönefeld e io, sono sincera, non gli ho creduto affatto. La linea 7 della S-Bahn mi aveva fatto attraversare paesaggi di un verde vivo che si erano trasformati in un’architettura squadrata e grigia via via che mi spostavo in direzione Spandau, fino all’arrivo ad Alexander Platz. Avevo pensato subito «Ecco la Germania», con quel tono rassegnato a sguardi di giudizio e rigore di occhi azzurri. Il vento e la pioggia che altrove fanno atmosfera erano solo conferma di un destino ingrato. Ero certa che la Germania non fosse terra per me, e la teoria della complessità di Berlino mi sembrava tutta una scusa.
E poi come dare credito a un uomo che proclama la complessità di Berlino se definisce come luogo di incontro l’unico hotel che tu non sceglieresti mai? C’è un mega acquario nella hall, cilindrico e alto 25 metri. Io sono morta di vergogna per i poveri pesci, esposti a 360° a sguardi curiosi: nel centro dell’acquario passa un ascensore. E che dire degli addetti alla pulizia che si svegliano all’alba bardati da sommozzatori per rimuovere alghe e microrganismi delle pareti cilindriche? Seduta su una poltrona, alzavo la testa fin quasi a cappottarmi e pensavo che una crepa avrebbe dato vita all’epopea del Titanic al contrario.
Però devo ammettere che mi sbagliavo. E non parlo della faccenda del Titanic, ma della complessità di Berlino.
Berlino è una città schiva, ti resta acciambellata sotto i piedi. Ogni tanto hai l’impressione che qualcosa ti osservi, ma poi ti giri e non vedi nulla, se non strade e palazzi. La domenica mattina davanti alla Porta di Brandeburgo c’è un ritrovo di meditazione: sedie e cuscini che chiunque può utilizzare. Ho pensato di fare una sosta per capire se, mentre mi fingevo assopita, lo spirito della città avrebbe fatto capolino tra le orecchie dei cavalli che troneggiano sulla Porta. Ma piovigginava, quindi ho proseguito verso il labirinto che è il monumento in memoria delle vittime dell’Olocausto, dove sono stata inghiottita dalle suggestioni della Storia e ho perso di vista la ricerca dello spirito della città.
Di certo Berlino ti lascia spazio: nonostante l’innegabile presenza di turisti che formano code fuori dal Museo della magia in Große Hamburger Strasse o aspettano il loro turno per farsi una foto a 3 euro con una coppia di soldati di (molto) dubbia origine americana al Checkpoint Charlie, tu cammini senza necessità di fare lo slalom tra la folla. Come questo si concili con una densità abitativa doppia rispetto a quella di Milano probabilmente lo sa solo lo spirito di Berlino. Anche la metropolitana ha un effetto “marmellata” nettamente inferiore alla metropoli lombarda, forse per effetto della combinazione U-Bahn (la metropolitana propriamente detta) e S-Bahn (15 linee ferroviarie veloci in gran parte sopraelevate) che ti porta ovunque e fa un po’ “smistamento dell’umanità”.
Il vero problema sorge quando passi dalle stanze della Vecchia Galleria Nazionale, fatte di colonne, marmi e allarmi che suonano se sei tanto ingenuo da arrivare a 2 millimetri dal quadro del tuo pittore del cuore, al museo all’aperto che è la East Side Gallery, dove chiunque si appoggia al Muro per uno scatto davanti al bacio di Brezhnev e Honecker, mentre qualche turista si protegge dalla pioggia noleggiando una vecchia Trabant. Lì «Che diamine sta succedendo?» te lo chiedi di certo, mentre non capisci più in che periodo della storia sei e se il grigio è un colore triste o solo uno sfondo che lascia risaltare tutti gli spiriti della città. Che diamine stia succedendo potresti non saperlo mai, a meno che tu non riesca a fare pace con la tua fallibilità di viaggiatore: non si può partire carichi di pregiudizi, al massimo di bagagli.
Un aiuto per scendere a patti con i propri errori lo si può trovare in un assaggio pomeridiano di bretzel (o fetta di strudel) e mezzo litro di birra alla Hofbräu Wirtshaus Berlin, in Alexander Platz. Funziona, l’ho provato. Solo che, trattandosi della sede berlinese di un marchio bavarese, poi ti tocca fare pace con tutta la Germania in un colpo solo.