Quella che segue è la trascrizione di appunti di viaggio vergati da una giovane avventuriera che ha soggiornato alle isole San Blas, arcipelago di oltre 360 isole al largo delle coste di Panamá, terra della popolazione indigena Guna Yala. Pare fosse partita per un’esperienza “alternativa” con il suo compagno e due amici. Non sappiamo lei ora dove sia, il racconto era chiuso in una bottiglia affidata alle onde dell’oceano. O forse è solo leggenda.
Giorno 1 – Narasgandub Dummad, l’isola di palme e 9 capanne
La sveglia è suonata alle 5 questa mattina e un 4×4 è passato a prenderci all’hotel di Panama City per portarci al porto di Cartì. La prima ora è stata tranquilla, abbiamo percorso una sorta di autostrada, mentre la seconda ora è stata un saltellare su strade sterrate e non, con buche e voragini enormi (ecco perché l’utilizzo di un fuoristrada 4×4 è consigliatissimo).
Al porticciolo qualche controllo e il pagamento della tassa di $ 20 per entrare in terra Kuna Yala. Il tempo non è dei migliori, il cielo è grigio e il mare non promette nulla di buono. Veniamo assistiti dai nativi, che prendono i nostri bagagli e li caricano su una barca, mentre in uno spagnolo improbabile ci invitano a imbarcarci. Ci forniscono una sorta di coperta di plastica per ripararci dagli schizzi di acqua e un giubbotto di salvataggio. Il tempo migliora, il mare si calma e il sole inizia a splendere; prima di arrivare alla nostra destinazione ci fermiamo in altre due isole per far scendere alcuni nativi e caricare provviste. In circa un’ora raggiungiamo l’isola di Narasgandub Dummad.
Inizio a rendermi conto della bellezza di questo posto: su un’isola di palme e nove capanne grande come due campi di calcio e circondata dal mare turchese, il verde della vegetazione risalta. Io sono estasiata ma mi domando se i miei compagni di viaggio stiano apprezzando quanto me l’idea di trascorre quattro giorni in quest’isola semideserta.
Scesi dalla barca, i nativi ci accompagnano verso le nostre abitazioni: due capanne di bambù, con tetto in foglie di palma, nessuna porta, nessuna finestra, una piccola zanzariera che copre il letto allestito e il pavimento in sabbia. Se i miei compagni di viaggio si aspettavano le palafitte della Polinesia o delle Maldive, non saranno contenti. Ma questo è proprio quello che cercavo.
Giorno 2 – Completo relax nell’umidità tropicale
Ieri sera mi sono addormentata ascoltando il rumore del mare, il suono più rilassante del mondo, e questa mattina mi sono svegliata presto, prima che la luce iniziasse a filtrare tra le canne delle pareti.
Oggi abbiamo fatto il giro dell’isola in ben venti minuti. Un vero paradiso, peccato solo scoprire che i rifiuti trasportati dal mare approdano anche qui. Il tempo scorre lento, il sole oggi ha deciso di ignorarci completamente e la vera preoccupazione della giornata è stata evitare di fare da birilli alla caduta delle noci di cocco. L’isola ha una piccola rete da beach volley e ne abbiamo approfittato per fare qualche partita, poi abbiamo giocato a bocce con le noci di cocco e, alla fine, abbiamo provato l’esperienza faticosissima di aprirle con un sasso… un’impresa da Titani!
Incomincio a conoscere il luogo e la popolazione di indigeni. L’isola viene chiamata più brevemente Big Orange e al momento ospita noi e tre uomini Kuna. Non c’è elettricità durante l’arco della giornata, viene acceso un generatore solo dalle 6 alle 10 di sera. Sono i tre indigeni che ci preparano da mangiare e ci assistono per eventuali esigenze. Per avvisarci che il pasto è pronto soffiano all’interno di un’enorme conchiglia: questo suono, che pare quello di una tromba, è il nostro richiamo ed è udibile in tutta Big Orange.
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