La piazzetta del paese è deserta e il venditore di panelle sonnecchia nel caldo pomeridiano. Guardo il mare e quello che resta della torre in tufo costruita nel 1500 come sistema difensivo della costa: i torrari, in caso di avvistamento dei pirati, suonavano la brogna (un tipo di conchiglia) per avvisare gli abitanti dell’imminente pericolo. Attraverso la strada ed entro nel bar pasticceria “La torre dei saraceni” per un caffè e un raviolo alla ricotta.
Tre Fontane è una piccola frazione di Campobello di Mazara del Vallo, sulla costa sud-occidentale della Sicilia. In lontananza il suo profilo richiama i paesi della Tunisia affacciati sull’altra sponda del mare. Bisogna dare un significato, trovare un motivo per fermarsi qui. Il turista visita Portopalo, Selinunte, poi passa oltre e prosegue per Mazara, Marsala, le isole Egadi, Erice. Tre Fontane è una strada e una lunga spiaggia da un lato e, dall’altro, una fila di case che rivivono nei mesi estivi con il ritorno della gente emigrata; è un po’ come Itaca e, siccome è la terza estate che ci torno, è un po’ anche la mia.
Il tempo è scandito dal ritmo quotidiano delle famiglie che, con ombrellone e sdraio, attraversano la strada per raggiungere la spiaggia. Il profumo della pasta al forno, il vociare dei bimbi che rincorrono un pallone, castelli di sabbia erosi dalle onde. Ritrovarsi dopo un anno a chiedersi come va, a parlare della famiglia e a raccontarsi della vita a Milano, Bologna, Verona. Non so se amiamo i luoghi per le persone che incontriamo o viceversa, ma essere ospiti di Angela, Anna e Leo, carissimi amici conosciuti nella quotidianità di Bologna, significa essere adottati e vivere in una famiglia allargata. La casa è un vero porto di mare, un andirivieni di zii, cugini, amici che vengono a salutare e spesso si fermano per il pasto. La cucina è sempre in fermento e gli odori di questa terra si spargono nell’aria. Qui il cibo si trasforma in convivialità vera e le persone ti accolgono e ti circondano.
Oggi Leo deve andare a Partanna e gli chiedo se mi può accompagnare a Poggioreale. Da tempo volevo andare a visitare quel luogo, memoria del terremoto che colpì e devastò la valle del Belice nel 1968, e sembra sia giunta l’occasione. I colori della campagna spaziano dallo zolfo dell’arsura estiva al verde degli ulivi secolari, dei vigneti e delle composizioni dei fichi d’india. Qua e là qualche casolare, un pastore con il suo gregge a lato della strada.
Il paese compare all’improvviso dopo un’ultima curva, arroccato su un poggio circondato dagli ulivi. In realtà Poggioreale è una ferita aperta nella notte del 14 gennaio 1968 e mai rimarginata: il paese nuovo è stato ricostruito a valle, mentre sul poggio il tempo si è fermato a quella notte. Mi addentro nella via principale e tutto è silenzio, solo il vento che si insinua fra le porte divelte, macerie, muri in equilibrio, finestre che fanno da cornice al cielo.
Incontro un piccolo gruppo di persone e ci guardiamo con stupore reciproco cercando le parole per giustificare il motivo di essere lì. Un signore anziano, in un italiano stentato e non più attuale, comincia a raccontarmi di sé: «Sono nato e vissuto qui fino a 12 anni poi, un anno prima del terremoto, sono emigrato con la famiglia in Australia». Fa riaffiorare i ricordi dalla memoria, la sua infanzia, la sua giovinezza, il lavoro nella campagna, il gregge da custodire, le macchie di neve in fondo al vallone negli inverni freddi, le fascine di legna sugli scalini, i bimbi scalzi sui lastroni di ghiaccio, il fumo dei comignoli e il profumo del pane cotto nel forno di casa. Infine la decisione del padre di raggiungere i cugini a Melbourne. Insieme a lui oggi ci sono il figlio e i tre nipoti. Camminiamo insieme e l’anziano ci accompagna a vedere quello che è rimasto della sua casa natale, poi i resti del piccolo teatro, lo scheletro della scuola, i ruderi della chiesa: pezzi di vita quotidiana persi fra le macerie. «Questo non è il paese che ho lasciato 50 anni fa – mi dice – ma ho comunque la sensazione di aver finito il mio viaggio tornando qui». Gli chiedo se questo sia il suo ritorno a Itaca, lui sorride e mi dice: «È l’origine del mio lungo viaggio». Poi mi stringe la mano e mi saluta.
Mi avvio verso la nuova Poggioreale, dove Leo mi verrà a riprendere. Un’auto mi supera al suono del clacson e intravedo l’anziano “australiano” che mi saluta prima di scomparire dietro la curva.
Ripercorro il nostro incontro, il suo ritorno qui che è coinciso con la mia prima visita, e penso che, forse, Poggioreale e Tre Fontane sono approdi sicuri in cui sostare prima di riprendere il largo nel mare della vita. Mi giro per l’ultima volta a guardare il paese e poi riprendo il mio viaggio; davanti a me la Sicilia con i suoi panorami aspri e la sua bellezza antica.